Verità e metodo

"Verità e metodo", Hans G. Gadamer

Può sembrare paradossale che pensatori ormai emancipati dalla religione, quali sono quelli contemporanei, facciano ancora riferimento ai filosofi medievali. A dispetto di ciò l’importanza che Tommaso d’Aquino ha acquisito per Gadamer è fondamentale. Se noi analizziamo un particolare capitolo di Verità e metodo (parte III, capitolo 2), ci accorgiamo come alcuni concetti della teoria tommasiana permettano al pensatore novecentesco di risolvere uno dei problemi più ostici che la filosofia del linguaggio e della mente abbiano incontrato nel corso della storia, e cioè il problema dell’internalismo e dell’esternalismo nella conoscenza. Se noi possiamo conoscere solo ciò che è dentro di noi, tutto il mondo esterno, che è sempre altro da noi, risulta precluso alla nostra conoscenza. È a questo proposito che Gadamer utilizza la celebre metafora dello specchio attribuita a Tommaso. Nell’attività della conoscenza, il pensiero riflette, saltando da una cosa ad un’altra, in cerca dell’espressione giusta che rappresenti la cosa. Ma non si limita solo a riflettere sé stesso; una volta trovata, la parola si sostituisce alla cosa. La parola è dunque specchio, nel senso che inizialmente vi è un’indagine interna che porta a un’immagine riflessa, e alla fine lo specchio assume gli stessi limiti della cosa, identificandosi con essa.

Il contributo del pensatore medievale non si limita solo a questo. Egli fornisce gli elementi necessari a Gadamer per legittimare, e addirittura fondare la sua ermeneutica. L’autore di Verità e metodo riprende la concezione di Tommaso, che interpreta il linguaggio come incarnazione. L’importanza di questa teoria non risiede nel fatto che dalla parola scaturisce il mondo esterno, ma che il mondo esterno è già sempre parola. Ciò significa che nel processo di emanazione che dal Padre porta a generare il Figlio tramite il verbum, non vi è una perdita da parte del generante. Tommaso estende questo processo al pensare: la parola non è qualcosa di successivo alla conoscenza, ma è il modo di attuarsi della conoscenza stessa. Ciò che dunque interessa a Gadamer è la parola intesa come “evento” in continuo movimento, divenire, che quindi presuppone un’attività interpretativa che non si esaurisce mai, un’ermeneutica infinita. Inoltre, Gadamer può affermare che “chi pensa qualcosa, ha di mira con ciò quello che pensa, la cosa” perché Tommaso gli ha insegnato che l’atto del conoscere non presuppone un ripiegamento del pensiero su sé stesso, ma è la parola ciò che il pensiero ha di mira. La teoria di Tommaso, dunque, oltre a giustificare la necessità del processo ermeneutico, fonda anche il realismo di quest’ultimo.